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Ammentos 2019

Ricordando momenti di tre anni decisivi nella mia vicenda umana e professionale    di Carlo Felice Casula

 

Tre ricordi sono in me vivissimi dei tre intensi anni di crescita, umana e culturale trascorsi dai Gesuiti a Cagliari.

Dopo le elementari, per un anno non sono andato a scuola. Come per quasi tutti i miei coetanei ero destinato a fare il pastore e con mio padre feci anche una lunga transumanza, poi, dietro molte sollecitazioni del parroco, del maestro e, persino del medico condotto, che apprezzavano la mia diligenza e il mio elevato rendimento a scuola, i miei si convinsero a “farmi studiare”. Strada obbligata, non essendoci a Ollolai le scuole medie, frequentare l’unica vera scuola popolare, allora esistente per ragazzi di famiglie povere: il seminario. Scelta conseguente i Gesuiti, presso i quali da un anno studiava già mio fratello Francesco.

Non era previsto un esame d’ammissione. Padre Giovanni Puggioni, specie nei paesi dell’interno, si recava nelle famiglie già selezionate e faceva un colloquio con i giovanissimi candidati. Quello con me ebbe anche un momento d’inconscia comicità. A un certo punto mi chiese con il suo usuale dolce sorriso: “cosa vuoi fare da grande?”.

Risposi prontamente, senza neppure pensarci: “il pastore!”.

Gli si illuminarono gli occhi e replicò: “pastore di che cosa?”.

Risposi prontamente: “ma pastore di pecore!”

Si aspettava sicuramente – oggi immagino – che dicessi pastore d’anime; a me, invece, allora la domanda sembrò superflua. In una famiglia di pastori da sempre non potevo certo andare a fare il capraro o, peggio ancora, il porcaro. Alla scuola di mio padre avevo già appreso bene il mestiere. Quel sant’uomo di padre Puggioni non replicò e, in ogni caso, fui preso.

Il secondo ricordo è legato al viaggio in treno da Macomer a Cagliari. Era la prima volta che salivo su un treno e mi eccitava molto la novità. Dopo Oristano, alla vista dello stagno di Santa Giusta, una grande delusione. Lo scambiai per il mare, mai da me prima visto; non rispondeva certo a come lo avevo immaginato, leggendo Salgari e Verne: nessuna onda altissima, nessun orizzonte sconfinato. Tenni per me questa delusione, confortata, per di più, dall’acqua ferma e anche oleosa del porto, all’uscita dalla stazione. Ma almeno in questo caso potevo ammirare con gli occhi in alto, pieni meraviglia, i palazzi, anch’essi mai visti prima di tale altezza.

Arrivati alla Scuola apostolica non riuscii più a tenermi dentro questi sentimenti e li confidai a padre Col, che ci aveva ricevuti. Mi disse di sistemare nell’armadietto in camerata il mio bagaglio e di raggiungerlo in cortile. L’operazione non occupò certamente molto tempo per l’esiguità del mie cose e fui rapidamente da lui.

“Bravo – mi disse, ora ti porto io a vedere il mare vero!”. In macchina andammo sino alla Sella del diavolo; scendemmo e mentre lui leggeva il breviario, io, incantato, guardavo ammirato e felice il mare vivo, con le onde sempre nuove e diverse che s’infrangevano sugli scogli. Ora sì che ritrovavo le pagine di Salgari e Verne. Sarà per questo che ancora oggi, quando vado al mare, preferisco sempre gli scogli?

Alla fine del terzo anno delle medie ebbi una lunga e profonda crisi di coscienza: nonostante la devozione e la gratitudine per i Padri Gesuiti che mi avevano insegnato giorno, dopo giorno, senza costrizione alcuna, il dovere dello studio e, ancor più, trasmesso e fatto assaporare il piacere dello studio e il privilegio della cultura, non avevo, né riuscii a farmi venire la vocazione, anche se mi attraevano e affascinavano le storie dei missionari. In particolare quelle dei padri Gesuiti delle Reduciones in Paraguay. Per intenderci quelle rese universalmente note con il film Mission di Roland Joffé, vincitore della Palma d’oro al 39º Festival di Cannes del 1986.

Non sono mai riuscito a ritrovare il libro che lessi allora che raccontava la triste e fascinosa vicenda di quell’esperimento comunitario. Fu una lettura per me fondamentale: da allora mi sono considerato comunista. Sarà per questo che il mio primo libro, quello di maggior successo editoriale, pubblicato da Il Mulino, è stato Cattolici comunisti e Sinistra cristiana.

Per uscire dal disagio e anche dal senso di colpa determinato dal continuare a stare a Cagliari senza la vocazione, chiesi di essere ricevuto da padre Francesco Serra, il rettore.

Mi ricevette e mi fece accomodare. Ero emozionato e anche intimorito. Gli sussurrai: “Padre, le debbo confessare una cosa”. Mi rispose: “non devi venire da me; devi andare dal Padre Spirituale per la confessione”. Mi feci coraggio: “no, padre, quello che debbo confessare riguarda lei, non il Padre Spirituale, perché è lei che comanda qui. Quello che non posso più non confessare è che io non ho la vocazione e da grande non voglio diventare gesuita”.

Osservavo preoccupato le reazioni sul suo viso che mi appariva serio e pensavo già di dovere, seduta stante, fare la mia piccola valigia di cartone e tornare a casa a Ollolai. Dopo qualche attimo di silenzio, che mi parve un’eternità, invece mi stupì con la sua risposta: “io so che voi venite qui per studiare, non per diventare sacerdoti, ma se studiate, a noi questo basta e questo, per favore non andare a dirlo in giro! Prosegui serenamente a studiare e a prepararti per l’esame. Capisci anche, però, aggiunse, che non potrai continuare perché, anche se apprezzo molto la tua sincerità, non possiamo tenerti più dopo le medie. Per la prosecuzione dei tuoi studi affidati alla Provvidenza”.

Ho sempre, allora, come oggi, creduto nell’ottimismo della Provvidenza, oltre che in quello della volontà, ma nei giorni successivi, pur senza angosciarmi troppo, pensavo tra me e me che la mia carriera scolastica fosse giunta al termine. Con un’interruzione di tre anni, avrei ripreso a fare il pastore, non avendo assolutamente la mia famiglia la possibilità di mantenermi agli studi. Non ebbi, in ogni caso, il coraggio di comunicarlo ai genitori, per non procurare loro preoccupazione e, quasi sicuramente, anche delusione.

Dopo alcuni giorni fu proprio padre Serra a volermi parlare nel suo studio. Mi disse che a Roma c’era un collegio, Villa Nazareth, dove già erano entrati due ex alunni, Edmondo Maccioni e Bruno Demelas (li ricordo con tristezza, perché entrambi prematuramente tornati alla Casa del Padre) che ospitava, fino all’università, a titolo gratuito, ragazzi di tutta Italia. Si entrava a seguito di un rigoroso concorso d’ammissione e requisiti imprescindibili erano la provenienza da una famiglia povera e un ottimale percorso di studi pregresso.

“Mi raccomando – mi disse congedandomi – studia con impegno per fare un ottimo esame e subito dopo fai la domanda per il concorso a questo indirizzo!”.

Sollevato e pieno di nuovo entusiasmo superai l’esame a Cagliari con un’ottima pagella, mi recai a Roma da solo, in una torrida estate, con un completo di lana, prestatomi da un cugino coetaneo e superai agevolmente il concorso, grazie alla grande preparazione acquisita per merito dei Padri Gesuiti.

A Villa Nazareth, fondata nel dopoguerra dal cardinal Domenico Tardini, segretario di Stato di Giovanni XXIII, ho compiuto gli studi liceali, mentre negli anni dell’università scelsi di vivere in un appartamento autogestito con altri studenti, accompagnati nel nostro percorso di fede da un altro straordinario padre gesuita, Pio Parisi, che nel ’68 scelse di lasciare la Cappella universitaria dell’Università la Sapienza, per vivere, come un monaco urbano, in grande povertà in un appartamento della periferia romana. Per molti anni è stato anche l’assistente spirituale delle ACLI, alle quali propose, come a noi, una Cattedra dei poveri e dei piccoli.

Nell’archivio di Villa Nazareth, oggi collegio universitario di merito riconosciuto dal MIUR, del quale sono uno dei responsabili da quando la presidenza è stata affidata al cardinale Achille Silvestrini, ho ritrovato una lettera di padre Serra alla direzione di Villa Nazareth. Segnalava la mia candidatura al concorso d’ammissione come ragazzo diligente, capace, curioso e voglioso d’apprendere e meritevole di poter portare a termine gli studi, garantendo anche sulla mia serietà e moralità.

Una garanzia che senza dubbio ha contribuito, al di là dei miei meriti, alla riuscita in quel concorso decisivo per la mia vicenda umana e professionale. Che finezza e che delicatezza, poi, dimostrata da padre Serra e dagli altri padri nel tenere segreto l’invio di quella lettera!

 

 
 
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