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Ammentos 2019

Sa vocassione     di Umberto Cocco

 

Juan aveva finito le elementari, e che era tempo di importanti decisioni su di lui se ne rese conto una domenica mattina quando lo vennero a chiamare le sorelle – Marirosa e Antonietta si trascinavano la piccolina, Paola, due anni – nella piazza della chiesa dove giocava con gli amici a lurettas, le galle della quercia. Dissero che c’era un missionario a casa: «At nadu babbu a torrare a domo luego. Devi tornare. Subito. B’ada unu missionariu». Facevano a chi trasmetteva prima l’ordine di tornare, poi ad Antonietta scappò di dire: «Ti vuole portare in collegio».

Allora capì. Preceduto dalle voci, da una vaga fama sinistra, era arrivato a casa sua il gesuita che avevano visto alla guida di una Dauphine bianca quella mattina, parcheggiarla di fronte alla casa del parroco e scenderne, davanti a loro, ragazzi con gli occhi sgranati per l’insolita automobile, l’insolito prete. Li salutò:«Sia lodato Gesù Cristo», e si avviò senza avere risposta sino a scomparire dietro il cancello della parrocchiale: claudicante, la tunica nera un po’ corta che lasciava vedere gli scarponi da contadino, stretta ai fianchi una larga cinta di stoffa che era quella che distingueva i gesuiti dai preti comuni, i secolari, presto Juan l’avrebbe imparato.

«Padre Angioni», disse qualcuno, che evidentemente sapeva. La fonte non poteva che essere il parroco dal quale il forestiero si stava recando. Don Pinna aveva parlato nelle settimane precedenti dell’imminente visita alle case degli alunni della quinta di un gesuita di Erghìghine, in forza al collegio di Cagliari, impegnato ogni estate a reclutare ragazzi fra le zone interne, il Marghine, il Mandrolisai, le sponde del Tirso, la Barbagia di Olzai e Ollolai.

Ed eccolo, seduto su una delle sedie nuove, nella camera buona di casa Turas davanti al padre e alla madre di juan, una camera da pranzo in realtà arredata da poco con mobili di fòrmica, dove sarebbe stata insediata la televisione dopo qualche anno, s’apposentu ’onu nel quale i ragazzi non venivano mai ammessi. Juan quel giorno sì.

Sicuro di sé, Padre Angioni aveva sul volto largo, glabro, dietro i grandi occhiali spessi con la montatura nera, un sorriso distante, quasi un ghigno, che Juan avrebbe imparato a temere. Somigliava più a un commerciante di bestiame di quelli che avevano a che fare con il padre che a un missionario, a un sacerdote.

Si interruppe per una frazione di secondo, per squadrare il ragazzo – che si sentì sporco, discolo – e continuò in quella che era sicuramente una parte chissà quante volte ripetuta, sulla vocazione, la buona ‘educazione, i buoni studi della Compagnia di Gesù, e la retta mensile, certo, anche quella, «conveniente, conveniente, Signor Turas».

Il “Signor Turas” e la moglie ascoltavano, in silenzio. Poi a un tratto la donna, guardando verso il figlio seduto al suo fianco, sull’ottomana rivestita di velluto verde che aveva resistito al rinnovamento della mobilia, ma parlando al gesuita, disse: «Sisse, Juanni za la tenet sa vocassione, padre Puggioni. Beru este? In chiesa già ci va», e guardava il figlio, sembrava volerlo implorare di confermare, dire di sì. Sì, senza esitazioni.

Gli spiegò dopo: «Devi avere la vocazione, Juan. Devi dire di avercela, custa vocassione, anche se non ti viene. Non c’è altro modo di studiare. O vai da loro e fai quello che ti dicono, o resti in campagna. Tuo padre ti vorrebbe in campagna, ma tu vai a studiare, Juanni, bae a Casteddu, pònemi in mente».

A Lure non c’erano le scuole medie. Erano a Parte Zier, a 12 chilometri di distanza, ci andava la sorella Marirosa, con un postale che partiva alle 6 della mattina e tornava dopo le 4 del pomeriggio. Magra, pallida, gli sembrava sofferente o così ricorda che la raffiguravano anche in casa, la ‘povera’ Marirosa, anche se raccontava belle storie della sua scuola di Parte Zier, e sentiva il privilegio di quella sua libertà.

La scuola d’avviamento, quella sì c’era, a Lure, una o due classi nei locali dietro la chiesa fatti costruire dal parroco, che ci teneva anche il catechismo: ma l’avviamento significava zappare l’orto del professore di tecnica agraria appena sotto quella strada, nell’immediata periferia, in un terrazzamento accanto a Nurache.

Padre Angioni sapeva di poter giocare su questo, anche senza parlarne.Taceva, aspettava. Poi fece qualche domanda.

Juan capì di dovere fare solo sì con la testa. Lo faceva di malavoglia ma accennava a rispondere sì, e poi non c’era più bisogno perché la traduzione in sardo che la madre faceva dei quesiti di Padre Angioni, togliendo l’interrogativo, non prevedeva risposta. «Sei contento?» chiedeva il prete. E la madre del ragazzo: «Asa a bider chi as’a esser cuntentu, Juà. Vedrai, sarai contento».

Il padre zitto, sembrava essere lì a rappresentare l’alternativa allo studio, a Cagliari, ai gesuiti, alla partenza del figlio, alla perdita del figlio, il solo figlio maschio. Lo disse subito dopo alla moglie quando Padre Angioni se ne fu andato. Juan ascoltava da sopra le scale la conversazione. «A su pizzinnu b’aggradat in su sartu», disse lui. «Al ragazzo piace la campagna» E la donna: «Est ca no ischit ite chered narrere. Non sa cosa vuol dire».

Il padre provò a dire che la retta mensile era alta. Ed era alta, effettivamente, a ripensarci oggi e collocarla in quegli anni: diecimila lire al mese.

«Faremo sacrifici, menzus nois como chi no issos tottu sa vida. Misèra sa vida nostra», rispose la madre, e sembrò spuntarla quando riuscì a farsi promettere che avrebbero almeno mandato il ragazzo – lui, Juan, su pizzìnnu - in colonia a luglio. Questo aveva proposto Padre Angioni, e si sarebbe visto, avrebbero deciso dopo, al suo ritorno.

Così il 5 luglio di quell’anno – lo avrebbe ricordato per sempre, perché era la vigilia della festa – era stato messo con altri cinque compagni di classe nella Fiat 1100 nera di Sabonette, – c’era solo lui nei primi anni ’60 nel paese, autonoleggiatore, e la sua sola macchina – e condotto alla stazione di Abbasanta. Sulla strada bianca, l’automobile procedeva lentamente: per tutti quei chilometri veniva in senso inverso una fila di carri, traccas campidanesi trainate da cavalli, muli, uomini e donne a piedi, a cavallo, diretti a Lure, al santuario campestre di Sant’Ainzu. Si rimandavano le voci, alcuni gruppi erano in preghiera, alla testa un uomo o una donna con uno stendardo. Juan e gli amici luresi vedevano la processione che saliva verso il paese che loro stavamo lasciando, arrampicarsi sui costoni di Santa Rega, Binzàles, Ilòi, Rionazza.

E poi in lontananza le retrovie, queste ancora nella discesa: scendevano a gruppi e con velocità diverse, da Parte Zier per la strada in pendio sino al Tirso, il fondo valle, al ponte di Rio Siddo dove si apriva il lago alla loro sinistra, la strada tutta curve, gli spalti ricoperti di fichi d’India. Cavalli, carretti, stendardi, le persone, parevano scendere a tratti dentro le curve stesse, e sparire. Per ricomparire, come sospesi nel nulla. Sin dentro la macchina sulla quale viaggiavano, costretta a fermarsi a ogni addensamento, i finestrini aperti, si sentiva il terreno scricchiolare sotto gli zoccoli e le ruote dei carri.

Come visse male quella partenza, Juan! Lo portavano via e in direzione inversa dal centro del mondo e dell’esplosione di vita verso cui tutti convergevano quel giorno, strappando lui e gli altri compagni non semplicemente alla festa ma al mondo, appunto, e a quello che credevano il mondo, per spingerli verso una lontana, sconosciuta periferia.

Li portavano a una colonia dei gesuiti al mare di Villasimius - non avevano mai sentito prima quello strano nome, Juan almeno - per una quindicina di giorni, per una specie di selezione su chi era degno e chi no di essere ammesso agli studi nel collegio di Cagliari.

Invece furono giorni felici. Imparò a nuotare, a tuffarsi in acqua da uno scoglio. Un prete piccolo, rotondo, aveva attrezzato una zattera inchiodando tavole trovate in spiaggia, e fu la prima navigazione: andavano sino a un isolotto e tornavano, li ferivano i chiodi sporgenti. Il resto del tempo fuori all’ombra di una pineta davanti alla colonia, ed era una vita libera, come era nei vicinati attorno a casa in paese e come era a Mindalài, a Màganos.

Gli odori cambiavano, quel misto di pino e di salsedine che si confondeva con quello delle cucine che veniva da dentro la colonia. E si parlava in italiano, volevano che i luresi anche fra sé passassero a quella lingua.

Si dormiva tutti in un camerone, mentre un prete passeggiava fra le corsie con le mani intrecciate dietro la schiena, dopo avere spento le luci, lasciava accese quelle notturne e a quella luce i ragazzi lo vedevano in quell’ultima attività di vigilanza, che sembrava ininterrotta, interminabile perché la mattina lo ritrovavano lì, lo stesso gesuita, lo stesso incedere, lo stesso libro aperto su pagine forse solo quelle diverse.

Quei silenzi severi cui un paio di volte al giorno erano costretti, prima dei pasti per ascoltare una preghiera, e nella cappella per la messa la domenica e altre funzioni religiose nella settimana, e poi quei lunghissimi minuti che i gesuiti chiamavano la meditazione, la sera dopo cena, Juan non li reggeva. Era insofferente ai silenzi e ai riti nonostante qualche mese da chierichetto nel suo paese.

Ma ritornò da Villasimius con l’apprezzamento dei gesuiti per la condotta in colonia, venne ammesso al collegio di Cagliari per la prima media.

 

 
 
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