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Ammentos 2019

Alle origini di una scelta con i Gesuiti    di Alfio Desogus

 

Era la primavera del 1957 e frequentavo la quarta elementare a Siurgus Donigala, paese ad economia agro-pastorale ai confini dei primi monti tra la bassa Ogliastra e la Trexenta.

Era una scuola vivacissima e frequentata da alunni provenienti da famiglie prevalentemente povere che vivevano dell’agricoltura di autosufficienza e la classe dove ero alunno era rigorosamente composta da maschietti e da natìvi di Donigala.

La separazione fra le scolaresche delle due frazioni, unificate in unico comune nel 1927 da Mussolini, era un fatto codificato perché l’unificazione era recente di appena 30 anni e doveva scontare i permanenti contrasti fra abitanti e fra addetti alla pastorizia derivanti dalla proprietà e dei pascoli dei beni, prima del comune originario e poi trasformati in beni di frazione totalmente vincolati da uso civico.

La nostra parlata, praticata prevalentemente anche fra noi alunni all’interno della classe, era la parlata locale sarda e, dopo anni di faticosa acculturazione scolastica, si iniziava ad avere una certa dimestichezza con la lingua italiana che, però, veniva utilizzata solo a scuola e nei rari casi di ufficialità.

Un giorno si presentò in classe il bidello per informare il maestro, Signor Luciano, che nell’ora della ricreazione si sarebbe presentato un sacerdote per conferire con lui.

Arrivata l’ora della ricreazione noi alunni andammo a giocare nel grande cortile della scuola e, non essendo per niente curiosi dello sconosciuto visitatore, non ce ne  occupammo.

Tra l’altro personalmente non avevo granché stima del parroco della Chiesa di Santa Maria della frazione di Donigala e perciò mi dedicai, senza indugi o curiosità, ai nostri giochi di gruppo.

La sorpresa mista a preoccupazione, invece, mi assalì a metà pomeriggio quando improvvisamente vidi entrare nel cortile di casa il mio maestro

Anche se un po’ rassicurato dal suo sorriso, risposi al saluto, non volevo mostrare alcun interesse per la visita ma, appena entrato nella “Lolla”, quatto quatto mi avvicinai senza fare rumore all’esterno della porta per porgere orecchio e capire la causa dell’inconsueta visita.

Riuscii così a capire che il mio maestro era stato contattato da un padre Gesuita di nome Puggioni che proponeva la prosecuzione degli studi ai ragazzi di ottima preparazione scolastica a condizione che fossero disponibili a frequentare un collegio dei Gesuiti di Cagliari.

Mia madre, non essendo presente mio padre, ascoltò inorgoglita e attenta ma parlò poco richiedendo solo alcuni sintetici chiarimenti e ponendo brevi domande per rendersi conto se tale scelta dovesse comportare spese troppo onerose anche perché la famiglia era composta da ben 7 figli.

Alcuni giorni dopo il maestro mi prese in disparte e mi rivolse alcune domande per capire quale fosse il mio gradimento per andare a Cagliari in un collegio per proseguire gli studi.

A me piaceva molto studiare e nella mia classe ero tra i più preparati, la prospettiva di andare a Cagliari mi solleticava molto ma non altrettanto mi entusiasmava il dover recarmi in un collegio generalmente considerato come luogo di limitazione di libertà e di regole che condizionavano l’autoorganizzazione e la spontaneità.

Quando capii meglio che il collegio era dei Gesuiti e che il padre che si era presentata a scuola era uno “scopritore” di ragazzi preparati e volenterosi mi adattai rassicurato all’idea che il collegio fosse una struttura cattolica diretta da padri Gesuiti ovvero sacerdoti del tutto diversi dal parroco donigalese che, per motivi politici a me estranei, mi discriminava in modo offensivo fino all’esclusione dalla “refezione” scolastica.

Rassicurato da questa diversità e differenza di comportamenti, accettai e dopo tre giorni Padre Puggioni m’incontrò e così mi resi conto che erano stati prescelti anche altri ragazzi miei paesani e amici di giochi.

Superai così le mie perplessità ed infine accettai. In estate partii per il collegio che si trovava in Sant’Avendrace a Cagliari.

Quando arrivai rimasi subito colpito positivamente perché all’ingresso subito dopo la piccola scala c’era un bellissimo campo per giocare a pallone; sulla sinistra c’era un grande orto con un pergolato carico di grappoli d’uva, in alto di fronte c’era in altro terrazzamento con due palazzi ai lati e sullo sfondo due grotte alte, profonde e con lunghe stalattiti di calcare pendenti dal soffitto in modo irregolare.

Seppi poi che la bellissima struttura si chiamava Villa Garzia e che era all’inizio della soprastante necropoli più grande del Mediterraneo denominata Tuvixeddu.

Forse per la particolarità del luogo ma soprattutto per la formazione culturale dei padri gesuiti tante domeniche della mia permanenza a Sant’Avendrace furono dedicate a conoscere i beni culturali di Cagliari a partire dalla vicinissima Grotta della Vipera per passare alle Torri di San Pancrazio e dell’Elefante per arrivare a San Saturnino.

Il mutamento profondo delle mie abitudini di vita quotidiana fu velocissimo anche perché il collegio forniva standard organizzativi, logistici e opportunità che elevavano la qualità della vita rispetto alle giornate donigalesi. Poter fruire della doccia, pasti diversificati e disponibilità del pallone di cuoio o della scrivania personale dotata di tutti i libri e persino il vocabolario personale era un salto di qualità che apprezzavo molto.

Si! Avevo a mia totale disposizione il vocabolario di latino, di francese e quello di italiano: era il sogno di tanti alunni della mia scuola di paese! Neppure i benestanti potevano permettersi una tale opportunità.

Nei giorni successivi al mio arrivo vi furono altri arrivi. Erano ragazzi della mia età e subito fui preso dalla smania di conoscere il nome dei loro paesi di provenienza. Erano quasi tutti del nuorese e del centro della Sardegna.

Fu così che conobbi tanti amici di Ollolai, di Lode, di Dorgali, di Desulo, di Bolotana, di Fonni e di numerosi altri paesi.

Ma quello che voglio ricordare, anche perché non c’è più, è Edmondo Maccioni di Tanaunella. Era buono e di poche parole. Molto posato e gentile. Ma mi colpiva anche Gino Farris soprattutto perché era mancino e questo requisito era importante nella formazione della squadra di calcio che, finalmente, si poteva fare con un pallone di cuoio e non di gomma pesante come quello che usavamo in paese.

Eravamo un gruppo affiatato e vario perché di provenienze diverse e ciò era dovuto al fatto che fra i paesi della Sardegna non vi era ancora omologazione forzata e soprattutto ognuno di noi aveva il proprio dialetto tanto diverso ma da tutti noi ben capìto ed oggetto di amichevoli sfottò. Insomma potevo continuare a parlare il sardo e a questo proposito l’arricchimento linguistico era notevole perché, oltre ad apprendere le espressioni sarde dei compagni di collegio, studiavo l’italiano, il latino e il francese. Un fatto importante, solo dopo anni ne compresi la ricaduta culturale e l’apertura mentale perché allargava notevolmente la conoscenza e la concezione del mondo e della società.

Non conoscevo i paesi e le zone della Sardegna né la scuola di Donigala mi aveva fornito molte nozioni in merito, soprattutto perché nei programmi scolastici la nostra Sardegna era posizionata all’ultimo capitolo del libro e quindi non era oggetto di studio.

Tra le attività di collegio che maggiormente mi piacevano erano la lettura di libri di narrativa all’inizio del pasto ma soprattutto il canto corale. La coreutica era per me una passione e feci di tutto per essere incaricato per l’intonazione dei canti che cantavamo durante la messa e in qualche altra ricorrenza.

Accanto ai padri gesuiti, insegnanti rigorosi, vi erano i così detti Fratelli che animavano le attività sociali e le escursioni nella città di Cagliari ma quello che attirava la mia attenzione era sempre Padre Puggioni perché sapevo che percorreva tutta la Sardegna e, con discrezione ma anche attento osservatore dell’animo umano, continuava infaticabile nella difficile opera di scopritore di ragazzi motivati e intelligenti su cui investire con la formazione e l’istruzione.

Un giorno, ascoltando una lezione di Padre Fogliati, ebbi conoscenza dell’isola del Madagascar. Era per noi un’isola come la Sardegna, lontana ed abitata da un popolo con caratteristiche etniche diverse dagli altri abitanti dell’Africa. Ma quello ci attrasse la nostra curiosità fu la notizia che in quell’isola era presente e operava una missione dei Gesuiti. La nostra curiosità ben presto diventò impegno coinvolgente e fatto didattico perché, per apprendere bene la lingua francese, gli insegnanti gesuiti ci impegnarono nella predisposizione di lettere ben curate da inviare ai ragazzi della missione del Madagascar.

La novità della corrispondenza con terre e uomini così lontani generava il senso dell’attesa di notizie di altri ragazzi così diversi ed era motivo di gioia quando arrivavano le risposte rigorosamente in lingua francese che leggevamo e rileggevamo con attenzione tentando di scrutare i luoghi e il modo di vita dei malgasci.

Debbo dire che per me, ma credo anche per i miei compagni di classe, essere stato per tre anni allievo dei Gesuiti è stata una grande esperienza culturale, umana e soprattutto una grande occasione di maturazione personale che ha valorizzato le mie propensioni e un nuovo modo di instaurare le relazioni umane. In quegli anni si sono instaurati rapporti di amicizia del tutto disinteressate ma anche un percorso per essere protagonisti nella società.

Molti di noi nel proseguo degli anni e degli studi hanno avuto modo di mettere a frutto l’esperienza del collegio dei Gesuiti e diventare parte attiva del gruppo dirigente nei diversi settori della società sarda. Abbiamo portato con noi la cultura e i valori acquisiti nel collegio orientando la consapevolezza e il senso della responsabilità in tante scelte che negli anni abbiamo assunto nello svolgimento della professione e nelle iniziative delle organizzazioni sociali.

Quella amicizia fra gli allievi e l’apprezzamento per i padri gesuiti, sperimentata nel collegio, è stata per noi come un fiume carsico che si è inabissato, ha percorso passaggi di valutazione e di sistemazione culturale ed oggi riappare spontanea rafforzando un legame umano e una gran voglia di riprendere le modalità di relazioni vissute e praticate da ragazzi.

I nostri raduni annuali dimostrano che l’esperienza vissuta ha prodotto orgoglio e valori che ci portano a esclamare con convinzione: grazie ai padri Gesuiti.

 

 

 
 
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