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Ammentos 2019

Tre anni con i Gesuiti      di Tonino Floris

 

-Sei Tonino Floris?- Mi girai con la racchetta da ping-pong in mano sorpreso e meravigliato, e mi trovai davanti uno strano prete, dal viso aperto e atteggiato ad un sorriso accattivante.

Fece qualche passo verso di me e notai subito, oltre ad una larga fascia nera che gli cingeva la vita, l’incedere leggermente claudicante.

Lì per lì, risposi solo:- Si, sono io-. Un po’ spiazzato non riuscii a dire altro.

Sempre accompagnato dal sorriso e da una sicurezza disarmante continuò:- Lo sai che so già tante cose su di te e dalla descrizione che mi hanno fatto ti ho riconosciuto. Sono padre Giovanni Puggioni, gesuita, e sono arrivato fin qui per invitarti a venire con me alla Scuola Apostolica di Bonorva, dove troverai tanti compagni della tua età, tra i quali qualcuno del tuo paese.

Quasi per rassicurarmi mi disse che aveva già parlato con mia mamma e con le zie; queste ultime, manco a dirlo, avevano fatto salti di gioia per la contentezza, in quanto per me da sempre auspicavano il seminario o un istituto del genere.

Guardandomi dritto in viso, aggiunse:- Che ne pensi?

Nella mia ingenuità non riuscii a dargli una risposta chiara e convinta, ma il Padre, da grande esperto di ragazzi, capì che mi aveva conquistato.

Eravamo a metà dicembre del 1953. Da qualche mese, a Tonara frequentavo la prima media, a dire il vero con scarso profitto, poiché più che studiare spesso me ne andavo in giro a divertirmi con i compagni nella sede parrocchiale.

La novità era tale che mi aveva sconvolto e così in preda all’eccitazione me ne tornai subito a casa. Con la mente affollata da mille pensieri, sogni e aspettative, quella notte fui preso da un sonno profondo.

Iniziava in questo modo la mia avventura con i Gesuiti che sarebbe durata tre anni.

Sono tanti i ricordi, i personaggi, i sentimenti, i fatti significativi che hanno caratterizzato il periodo bonorvese, per cui ci vorrebbe un libro intero per comprenderli tutti, mi limiterò, quindi, a soffermarmi su quelli che mi hanno lasciato una traccia più chiara nella mente.

Il primo impatto con la Scuola Apostolica, con i Padri e con tutte le regole che ci legavano, fu difficile e faticoso. Per un ragazzino di paese, abituato alla vita libera e alla condiscendenza della famiglia, tutto ciò non era semplice.

I Padri, ottime persone ricche di cultura, grande esperienza e profonda spiritualità, ci tenevano tuttavia sotto controllo in continuazione, come una sorta di occhio vigile tipo “1984”. Erano buoni ma nello stesso tempo profondamente severi e tutta la vita di noi ragazzi, destinati a diventare futuri gesuiti, era giudicata con i settimanali voti di camerata. Di fronte a tutti noi riuniti nello studio, venivano letti per ognuno, dal padre Prefetto padre Tosoni o dal padre Lecca. A me tutta quella atmosfera, quasi di giudizio, mi procurava disagio e paura, anche perché questi voti venivano spediti regolarmente alle famiglie.

Pietà, Condotta, Studio, Buon tratto-Ordine: erano questi i campi in cui si veniva esaminati e giudicati. Chi era veramente bravo prendeva sempre quattro dieci; per chi, invece, come me, a volte non era allineato completamente ad un certo standard di comportamento, i voti quasi sempre variavano da sette a nove.

Il voto che aveva maggior valore e importanza era quello sulla Pietà, e come tale richiedeva puntualmente dieci, perciò anche il nove era considerato insufficiente.

Io prendevo poche volte la votazione piena, mi mancava spesso il dieci sulla Pietà, mentre era molto più frequente in Studio.

E proprio nello studio e nella scuola mi trovai quasi subito a mio agio, considerando anche la mia assoluta impreparazione iniziale. Studiavo con piacere e i padri, professori delle varie materie, erano sempre pronti e disponibili ad aiutarci. Mi ero affezionato al professore di latino, padre Garzena, il quale tenendomi in simpatia mi chiamava nella sua camera affidandomi il compito di controllare i compiti di latino dei compagni, cosa che aveva fatto indispettire molti di questi e per farmelo notare, in tono canzonatorio, mi chiamavano “manicheo”. Il padre spirituale, invece, padre Durante, persona alquanto paciosa e tranquilla, ci seguiva facendoci rifugiare nella sua camera, indagando frequentemente, quasi in confessione, nei nostri pensieri, cercando di scrutare le insorgenti distrazioni extra, tipiche di quell’età, dando consigli e indicazioni comportamentali.

Ma l’incontro più interessante era quello con padre Pretto, professore di matematica. Ogni volta che entravo nella sua stanza, che si trovava nel piano superiore, nella zona di “Clausura”, mi colpiva il disordine che vi regnava. Sul tavolo-scrivania c’era di tutto: dai libri, a qualche spezzone di filo elettrico, a fogli sparsi con appunti, ad una spatola, ai compiti degli alunni. Indossava con noncurante disinvoltura la tunica piena di strappi e punteggiata di evidenti strisciate di calce. Era basso e tozzo, dal carattere burbero e con la mente eternamente presa da qualche suo problema, per cui quando gli facevi delle domande pareva che non ti ascoltasse, ma puntualmente ti dava la risposta giusta ed esauriente.

Meno divertente e alquanto imbarazzante era l’incontro col padre Rettore, padre Sanna. La sua convocazione presagiva, a volte, un giudizio su qualche grave colpa o sulla non completa soddisfazione dei padri nei confronti di qualcuno, con la conseguente decisione o minaccia di essere rispediti a casa anche nel corso dell’anno scolastico.

Ritornando con la mente a quegli anni, e sono più di sessanta, rivedo una vita sociale molto varia, piena e per i ragazzi stimolante e divertente. A parte le cerimonie in cappella, le varie funzioni, le preghiere, le citazioni e i riferimenti ai grandi della Compagnia di Gesù, o esercizi spirituali, le giornate erano vivificate da numerose attività ludiche come la scalata delle pertiche nel cortile antistante la cappella, le partite a pallone nel campetto e specialmente il ping-pong che ci appassionava enormemente. Io ero diventato abbastanza bravo e avevo pure vinto un torneo. Ma il diversivo preferito erano le passeggiate nel paese o nei dintorni. A volte ci spingevamo anche nei centri vicini a Bonorva come Semestene, Borutta, Cheremule, Bonnanaro o località più vicine come Santa Lucia e Rebeccu. Partivamo con vettovaglie varie, frutto del contributo di tutti, poiché ogni cosa che proveniva dalle famiglie doveva essere suddivisa e consumata in comune. Così come avvenne di una metà di agnello arrosto, che mi avevano portato mio babbo e una zia. Feci solo in tempo a vederlo e ammirarlo, e a merenda ne potei assaggiare appena un pezzetto. Anche le numerose passeggiate rappresentavano, tuttavia, occasione ideale ed estemporanea per colloqui particolari con Padre Puggioni. Si avvicinava amichevolmente, quasi con indifferenza, e attraverso sorrisi, riferimenti e domande s’intrufolava nel segreto dei nostri pensieri. Non era una confessione vera e propria, ma aveva le stesse caratteristiche. Ci lasciava, però, tranquilli e soddisfatti con l’impegno di migliorare la nostra linea di condotta.

Il primo anno trascorse sereno e felice, se non per un fatto abbastanza triste che segnò profondamente la vita di tutti. Uno dei tre compagni di Aritzo, di cui non ricordo il nome, ma di cognome faceva Cogoni, si ammalò gravemente e ci lasciò. Venne sistemato nel suo letto nella camerata, tra i nostri pianti disperati. Quando venne portato via dai famigliari, tutta la Scuola parve come avvolta da un manto di indicibile tristezza. Quell’anno scolastico, 1953-54, fui promosso riportando una buona votazione. Negli ultimi giorni, i padri ci sottoposero ad una serie di esercizi spirituali, accompagnati da un sostanzioso vademecun di consigli e raccomandazioni per le vacanze.

Dopo una quindicina di giorni, dovetti però lasciare nuovamente famiglia, vecchi compagni e le libere scorribande perché eravamo stati convocati per il campo estivo a Scano Montiferro. Di quei giorni ricordo particolarmente una gita al mare: andammo alla spiaggia di Santa Caterina di Pittinuri, dove alcuni padri, in costume da bagno, diedero sfoggio della loro capacità nel nuoto, con nostra grande meraviglia e ammirazione.

La prima parte del secondo anno fu piuttosto tranquilla, non successe niente che potesse turbare il percorso scolastico e spirituale e il rapporto con i Padri e i compagni era ottimo. Ma la parte migliore ed esaltante doveva ancora venire, poiché ci aspettava un indimenticabile viaggio in continente. I Padri avevano scelto una bellissima località per trascorrere le vacanze: si chiamava Muzzano, un bel paese in provincia di Biella, in Piemonte. Venimmo ospitati in una loro villa, circondata da parchi e località incantevoli che esplorammo per le nostre gite e giochi vari, in lungo e in largo. Da eccezionali esperti nell’educazione e nella formazione culturale, oltre che ludica dei ragazzi, i padri avevano organizzato e programmato una serie di visite in località famose che ancora oggi, a distanza di una vita, tengo presenti nella mente come uno dei più cari ricordi.

Rivedo ancora le mele che attiravano i nostri sguardi avidi ai lati del sentiero che in salita ci portava al Santuario di Oropa. Noi ragazzi sardi, abituati alle scorribande nei campi in cerca dei frutti degli alberi, cercavamo spontaneamente di prenderle, ma i padri non ce lo permettevano. Ci sembrava strano lasciar perdere tutto quel ben di Dio; di nascosto, tuttavia, qualche mela finiva ugualmente in tasca.

Ci aspettava di lì a poco la meraviglia delle meraviglie: un’avventura che mai avremmo potuto sognare né tanto meno immaginare.

Un po’ assiepati nell’angusta cabina i nostri sguardi quasi terrorizzati fissi sotto i nostri piedi, seguivano con gli occhi fuori dalle orbite le cime delle rocce innevate che, a tratti avvolte dalle nuvole ci accompagnavano per la ripida ascesa. Stretti l’un l’altro e col cuore in gola per la forte emozione, mentre la teleferica ci portava ai piedi del Monte Mucrone. Usciti fuori dall’angusto abitacolo, quasi increduli di poter poggiare i piedi sulle rocce, attratti da una visione da sogno iniziammo a cimentarci con l’impegnativo percorso, che si concluse sulla cima del monte. Il mese di luglio, per noi simbolo di sole e di caldo, ci riservava l’inaspettata sorpresa delle mani intirizzite e ancora uno spettacolo di difficile descrizione. Davanti ai nostri occhi si alternavano bellezze incomparabili: il Monte Rosa sopra le nuvole, laghetti alpini, distese candide di neve e ogni tanto qualche fiore dai colori intensi. Nella nostra vacanza le emozioni e le sorprese non erano finite. Alcuni Padri, esperti conoscitori delle bellezze di quelle famose località, predisposero per noi un’altra gita: la visita al lago d‘Orta, con giro in barca attorno all’isola di San Giulio e visita alla chiesa- santuario. Ricordo un particolare del lampadario gigantesco che sovrastava la volta della sacrestia: era stato ricavato, come ci riferì la guida, dalla coda di un dinosauro. Fu altrettanto ricco di forti emozioni il viaggio ad Arona, nel Lago Maggiore, con relativa ascesa all’interno della gigantesca statua di San Carlo Borromeo “san Carlone”. Questa era talmente grande che ci stavamo beni in piedi sulla punta del naso.

Questo fantastico viaggio in continente fu importante e fortemente istruttivo: le sue immagini mi hanno sempre accompagnato e sono state di stimolo anche per le mie lezioni da insegnante.

La sosta a Torino, sulla via del ritorno, mi fece conoscere diversi aspetti e monumenti importanti e famosi di questa storica città che, a distanza di tanti decenni, ho rivisto e ammirato con mia moglie Maria. La chiesa di Maria Ausiliatrice con la salma di San Giovanni Bosco, la cappella della Sacra Sindone, il Museo Egizio e la Basilica di Superga in modo speciale, a conclusione di quell’anno felice con i Padri Gesuiti, hanno occupato un posto di primo piano negli aspetti affettivi e cognitivi della mia formazione culturale e sono stati oggetto di racconti ai miei alunni e ai miei figli.

Nel terzo anno fui quasi completamente assorbito nell’impegno scolastico, poiché ci aspettavano gli esami di terza media per i quali ci dovevamo confrontare con professori nominati da altre scuole. Furono molto impegnativi e fui rimandato in una materia a settembre, per cui tornato a casa mi dovetti impegnare nello studio per tutta l’estate, ma per fortuna tutto andò bene,

Finalmente, potevo godermi spensierati momenti di divertimento con i vecchi compagni di giochi. Non erano, tuttavia, destinati a durare per molto, poiché un giorno mi giunse una lettera dai padri gesuiti. Quasi presagendo qualcosa di strano aprii la busta un po tremante e lessi con gli occhi quasi incredulo la decisione sulla mia permanenza tra loro. Non ero stato giudicato idoneo per diventare gesuita e conseguentemente non sarei partito per Cuneo. La notizia era per me del tutto inaspettata e mi gettò nello sconforto. I padri mi salutavano incoraggiandomi e mi auguravano tutto il bene possibile per il mio proseguimento negli studi in un’altra scuola.

Passai molte giornate triste e sconsolato pensando e ripensando a ciò che avevo potuto fare di sbagliato e che aveva causato il giudizio negativo su di me. Non trovai la risposta giusta e così piano piano mi rassegnai.

Non sono diventato gesuita, ma l’opera e l’insegnamento dei Gesuiti sono stati fondamentali nella mia vita e nella mia professione di insegnante. Ringrazio la Compagnia di Gesù di avermi dato tanto in termini di fede, di formazione e cultura.

 

 
 
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