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Ammentos 2019

Il chierichetto scelto per diventare Gesuita     di Salvatore Frau

 

Può anche accadere!

È capitato: un bambino di nove anni, nato in un paesino sperduto sul Gennargentu, venne scelto per diventare Gesuita.

La mia era una famiglia molto religiosa e praticante, come lo era la maggior parte degli abitanti del paese, allora. Parlo degli anni 1940-1960.

Del resto, noi abitavamo a una ventina di metri dalla Chiesa parrocchiale e partecipare a tutte o quasi le cerimonie che si svolgevano lì accanto a noi, più o meno importanti, rientrava nella norma e nelle abitudini quotidiane.

Tanti bambini eravamo presenti in modo costante ai riti che due sacerdoti, a volte tre, compivano con un’alta partecipazione di fedeli. Non so perché, ma io dovevo essere presente più di tutti gli altri. E a un certo punto, pensandoci bene, mi parve che il parroco, don Livio Urru, quasi pretendeva da me e dai miei genitori che io non mancassi mai. Una volta che mi assentai da una lezione di catechismo, inviò una “circulina” perché mi cercasse; mi trovò che giocavo con altri bambini e con modi spicci mi convinse a rientrare in chiesa, dove il parroco, don Livio, mi attendeva; mi diede alcuni sculaccioni e mi mise alla berlina di fronte ad altri bambini impegnati nel catechismo, con mio grande disappunto. Ricordo anche che mi muovevo in chiesa e negli spazi interni ed esterni come se fossi nella mia umile dimora!

Il parroco inoltre era quasi come uno di casa; veniva spesso da noi, così come da mia zia e dai miei cugini (tra i quali era Salvatore Zanda, oggi Gesuita, Padre Zanda), con i quali formavamo quasi una sola famiglia, sebbene in case separate, ma prossime.

Un giorno mi fece una sorpresa davvero inaspettata ed entusiasmante per la novità assoluta che rivestiva: mi regalò un album di figurine sulla vita di Gesù. Fu davvero per me un dono meraviglioso e gradito, tanto che divenne un inseparabile compagno; sempre con me in casa e talvolta fuori; lo facevo vedere ai compagni, chierichetti e no, che me lo invidiavano. A un certo punto ne conoscevo a memoria tutto il contenuto, come fosse una poesia di quelle che cominciavo a studiare a scuola.

La mia frequenza della chiesa era, quindi, una norma quotidiana; non c’era cerimonia religiosa a cui non partecipassi: non ero mai assente ai vari riti, soprattutto a quelli delle grandi festività. Una di quelle indimenticabili era la messa di mezzanotte per Natale, Sa Missa ‘e Puddos, durante la quale spesso qualche chierichetto si addormentava in piedi: pareva non finisse mai; talvolta intirizziti dal freddo invernale di Desulo, paese di montagna sul Gennargentu. Ci pensava l’anziano sagrestano, tiu Perdu Canudu, che suonava le campane, faceva il confratello, girava per la questua, era sempre al servizio; era quasi il suo mestiere e gli consentiva di campare con la sua numerosa famiglia. Aveva la capacità di far passare il malumore e il sonno a tutti. Quando vedeva che qualcuno mezzo addormentato, si avvicinava e, con cautela, faceva respirare un po’ di tabacco da naso, con tutte le conseguenze irrefrenabili: starnuti a non finire….! La stessa cosa quando si accorgeva che uno era triste: molti chierichetti si rifugiavano nel retro dell’altare, nel coro, in attesa o fine cerimonia. Per lo più ci si rifugiava in sagrestia, perché non era possibile controllare gli stimoli dello starnuto e si incorreva nelle sgridate del sacerdote di turno.

Dopo la Pasqua i chierichetti eravamo chiamati ad accompagnare il parroco nella benedizione delle case. Due o anche tre andavamo di casa in casa, dove venivamo accolti sempre con devoto rispetto. Vi trovavamo per lo più solo anziani, donne e bambini, per la benedizione della casa. Gli uomini erano fuori al lavoro e la maggior parte, pastori, si trovavano nei Campidani per la transumanza. Alla fine del rito veniva sempre data un’offerta al prete e, talvolta, anche ai chierichetti, in monete raramente, per lo più in natura, soprattutto uova, formaggio, salsiccia o altro. Noi bambini spesso ne facevamo incetta, di nascosto dal sacerdote.

In quegli anni gran parte del mio tempo, oltre la scuola e le funzioni religiose, lo trascorrevo in campagna per portare al pascolo la capra di casa, Cara Bella, che doveva forn

ire il latte per la famiglia che cresceva.

Erano gli anni 1950 – 1954. Durante l’estate veniva a Desulo il Gesuita Padre Puggioni e si soffermava spesso a parlare con noi ragazzi, per conoscere le nostre famiglie e i desideri di ciascuno, sempre con molta discrezione. Ne seguivano delle corrispondenze che talvolta si concludevano con la proposta chiara e precisa per qualcuno di noi di andare a studiare dai Gesuiti. Quelli che accoglievano l’invito, con l’accondiscendenza dei genitori, venivano chiamati a compiere gli studi presso la Scuola Apostolica di Bonorva.

Nell’estate del 1954, io fui tra i prescelti.

Avevo dieci anni ancora, perché cominciai a frequentare la prima elementare a cinque anni. Concluse le scuole primarie per me si apriva un’altra strada, un’altra vita, un’altra storia, lontano da casa, dagli amici, lontano dai miei giochi preferiti e dalla mia capra, Cara Bella, dai capretti, da Is Concheddas, da Is Cruccuris, i luoghi in cui soprattutto portavo a pascolare la nostra capra.

Ai primi di settembre del 1954, venni accompagnato da mio padre a Bonorva, presso la Scuola Apostolica dei Gesuiti, per studiare e diventare, forse, gesuita e missionario.

Ricordo che il nostro viaggio coincise con il trasferimento del parroco don Livio Urru da Desulo a Neoneli. Mio babbo approfittò di una delle poche macchine che accompagnavano il parroco. Dormimmo nella nuova casa parrocchiale e la mattina successiva proseguimmo in corriera sino ad Abbasanta, dove prendemmo il treno che ci portò a Bonorva.

L’accoglienza fu senz’altro molto affettuosa e piena di cortesia. Io ero stordito dai luoghi e dalle persone, dai Gesuiti che si rivolgevano a me in modi per me non consueti, sempre in italiano, a me che parlavo quasi sempre in sardo. Mi fecero visitare la mia nuova casa, che per me era un enorme palazzo: la cappella, lo studio, il dormitorio, il terrazzo, il grande cortile dove altri ragazzi giocavano a pallone.

Mio padre rimase alcune ore a parlare con i padri Gesuiti e con me, fino a che arrivò l’ora della ripartenza. Quando vidi mio padre uscire dalla porta della Scuola Apostolica, non riuscii a trattenere le lacrime. Un pianto incontrollabile e senza freno mi assalì. Venni accompagnato da qualcuno in alto sulla terrazza, forse per ammirare il paesaggio di Bonorva e distrarmi. Quando mi affacciai per guardare intorno, dalla parte della stazione ferroviaria intravidi mio padre che lentamente si approssimava alla stazione. Lo riconobbi per il suo basco e per il suo andare lento e pensoso. Il pianto accrebbe il suo flusso e niente e nessuno riuscì a distrarmi e a darmi un po’ di tranquillità. Per una settimana intera le lacrime comparivano ad ogni occasione in cui il pensiero correva a casa e al paese lontano.

Di tanto in tanto arrivavano altri ragazzi come me. Dopo circa una settimana in questo stato, del tutto frastornato e con le lacrime costantemente negli occhi, arrivò un ragazzo che mi colpì subito perché vidi che piangeva: anche lui! Mi disse che veniva da Aritzo, quindi da un paese vicino al mio, confinante con Desulo. Mi tranquillizzai un po’, forse mi pareva un compagno dei miei giochi. Vidi però che ora era lui, Filiberto Mereu, che iniziava il suo pianto a dirotto. Io mi trovai come obbligato a sostenerlo e incoraggiarlo. Smisi anche di piangere. Mi adattavo alla nuova situazione. Iniziavo a studiare e a prepararmi per l’esame di ammissione alla scuola media, che sarebbe stato alla fine del mese.

Intraprendevo così il mio percorso di formazione e di studio che mi farà crescere e pian piano mi porterà verso una nuova vita.

 

 
 
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