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Ammentos 2019

Ammentos e Pensamentos  di Giovanni Pala

 

In quel tempo non possedevo una macchina fotografica, ma l’immagine che è rimasta impressa, a colori, nella mia memoria, ritrae una donna ed un ragazzino di quasi 12 anni, che aspettano un treno proveniente da Sassari, diretto a Cagliari. La donna è mia madre, il ragazzino sono io, alla stazione di Giave, diretti alla stazione di Cagliari, dove avremmo trovato, ad attenderci, un amico compaesano che ci avrebbe accompagnato, in Via Tuveri, seconda traversa, n. 2, collegio dei padri Gesuiti.

Eravamo ai primi di ottobre del 1959, circa 60 anni fa, verso le sette del mattino. Il ragazzino, quasi dodicenne, in calzoni corti e senza molte protezioni per difendersi dall’umidità, per la prima volta esce dal suo paese e si guarda attorno, disorientato, cercando di capire dove si trova e dopo un po’ realizza che non è dentro una nuvola, ma sulla terra ferma. Volge lo sguardo oltre i binari e intravvede, in mezzo alla fioca luce delle lampadine gocciolanti di rugiada, le case, ancora immerse nella nebbia, del suo paese. Gli abitanti dei paesi vicini, seguendo l’abitudine, molto diffusa in quei tempi, di dare un soprannome ai paesi limitrofi, chiamavano Cheremule “affumadu”, perché molto spesso, anche dopo l’alba, continuava a galleggiare dentro un fitto banco di nebbia che lo rendeva quasi invisibile, mentre a campu giavesu, la luce aveva già vinto l’oscurità della notte e superato s’avreschida.

Cheremule era un paese, dove l’unica attività non agro-pastorale era rappresentata dall’estrazione della “Cheremulite”, la pietra pomice presente nel Monte Cuccuruddu, sotto le pendici del cratere di un vulcano spento. In quel tempo contava circa 700 abitanti, destinati a diminuire notevolmente, e in tempi brevi, a causa dell’emigrazione di molti giovani che se ne andavano nei paesi del centro-europa in cerca di lavoro e di molte ragazze che andavano nella penisola per fare “sas teraccas”. La strada principale del paese non aveva ancora conosciuto l’asfalto, mentre le viuzze interne erano “ a impedradu”. Per noi bambini e ragazzi, il luogo più frequentato era “carrela de sa murighessa”.(foto 1), anche quando non erano ancora maturate  le more del gelso.

Io ero in quella stazione per una serie di circostanze verificatesi nel periodo che va dal giugno 1958 al giugno1959. Oggi, dopo quasi 60 anni, pensando a quelle che ho appena definito circostanze o casualità, sento di poter condividere con convinzione uno dei tanti pensieri illuminati di A. Einstein: “Il caso è Dio, che passeggia, in incognito”.

In quei 12 mesi citati, nel 1958 io frequentavo la quinta elementare e fui promosso con ottimi voti. Mia mamma si apprestava per andare a Thiesi per preparare i documenti necessari per poter sostenere l’esame di ammissione alla scuola media, allora obbligatorio. Purtroppo mamma cadde e si fratturò alcune costole che la bloccarono a casa, per cui niente documenti, niente esame di ammissione! Che fare? Lasciare questo ragazzino per strada?

Dopo tanto pensare, la mia maestra, Ottavia Bagella, che il prossimo 12 di dicembre compirà, in piena lucidità, 99 anni (!), ebbe l’idea geniale (e forse non pienamente legittima) di farmi ripetere la quinta. E i miei accettarono la proposta.

Nella primavera del 1959, il Meilogu era percorso, paese per paese, da Padre Giovanni Puggioni, un gesuita di Borore (1922-2009), che gettava le reti, in cerca di nuove vocazioni. In questa rete caddi anch'io.  Questo rappresenterà una svolta fondamentale della mia vita, iniziata in quell’umido mattino di ottobre alla stazione di Giave.

Senza questi eventi e senza questa identificabile casualità, che mi hanno regalato un’esperienza fondamentale per la formazione personale, per quella scolastica e per quella spirituale, la mia vita sarebbe  stata radicalmente diversa, molto meno interessante e molto meno soddisfacente di quanto non lo sia stata fino ad oggi.

La mia famiglia- io ero il quarto di cinque figli, di cui 3 maschi e due femmine -  come la stragrande maggioranza di quelle del mio paese, viveva in una dignitosa povertà e, seppure non definitivamente, come invece fu per tanti altri, alcuni dei componenti dovettero prendere la strada dell’emigrazione. Pertanto, nel 1961 partì il mio fratello maggiore, seguìto nel 1963 dal terzo fratello e nel 1966 dalla sorella maggiore.

Mio babbo in quegli anni lavorava come operaio nella cava della cheremulìte e negli anni successivi faceva  su massaju zoronaderi, per cui credo che sarebbe stato molto difficile che io avessi potuto fare il percorso scolastico che ho fatto varcando la porta del collegio di Via Tuveri, seconda traversa, n.2.

Durante il lungo viaggio, il primo sia per  mamma che per me, scambiammo poche prole, rapiti dalla  curiosità della prima volta, cercando di capire la direzione di marcia del treno, che a noi sembrava un missile. Quando scendemmo dal treno e mi ritrovai negli ampi spazi della stazione di Cagliari, in mezzo  ad un sacco di gente, ebbi le sensazioni che, quasi dieci anni dopo, ebbe Neil Armstrog, mettendo il piede sul suolo lunare. Mi sembrava di essere atterrato su un altro pianeta!

Iniziava un quinquennio che ho affrontato con la curiosità stimolata da un mondo nuovo e con la gioia di chi ha vinto un terno al lotto, cercando di prendere e di dare tutto il possibile. Fin da subito ho potuto beneficiare di un arricchimento continuo, grazie al fatto che tutte le novità erano dei semi che cadevano su un terreno fertile nel quale germogliavano facilmente. Ho imparato a conoscere i nomi di molti paesi della mia Isola, grazie alla provenienza da molti posti diversi, dei compagni del collegio. Ho potuto osservare l’organizzazione interna del collegio e la pianificazione dell’intera giornata, in funzione della “gestione” di oltre 100 ragazzi di diversa età (dagli11 ai 15 anni), chentu concas, chentu berritas (foto 2).

Ricordo l’allora giovane Padre Enrico Deidda, ex promessa calcistica cagliaritana, che era il ns prefetto, colui che doveva “gestirci” nei tempi extra lezioni, e che ci faceva giocare molto a pallone.

Avendo un’età che non solo consente, ma richiede un consuntivo, un’analisi serena, sincera ed equilibrata mi porta ad affermare che i cinque anni di permanenza in quel palazzo dai mattoni rossi che confinava con la pineta di Monte Urpinu (che abbiamo conosciuto palmo a palmo, giocando a “Bandiera”) e con una segheria, dentro la quale spesso cadeva il pallone,( che non ci veniva restituito), sono stati di fondamentale importanza, non solo dal punto di vista scolastico, ma soprattutto nella formazione della persona.

Ricordando una massima di S. Ignazio di Loyola (“ datemi un bambino nei primi sette anni e io vi mostrerò l’uomo”), posso confermare che, in quegli anni, ho  ricevuto dai padri gesuiti un contributo fondamentale per  la formazione della mia persona.

Indicando in ordine sparso, posso elencare gli elementi che mi hanno arricchito:

L’abitudine alla vita di gruppo, dovendo coesistere con tanti compagni di diversa età e provenienza.

Imparare il galateo, a lavare i piatti, le posate, ( a volte per turno, altre per punizione) a rifarsi il letto

L’abitudine alla lettura (durane i pasti e negli orari previsti). Ricordo la scoperta di E. Salgari.

La metodologia e la profondità nell’insegnamento del latino: di cui conservo ancora tracce indelebili, che mi facilitano, ancora oggi, la comprensione dei testi latini.

Non posso che esprimere altrettanti pareri più che positivi sull’insegnamento dell’italiano, in particolare, per quanto mi riguarda, lo svolgimento dei temi. Ricordo le difficoltà che incontrai, per diverso tempo, dovute al fatto che, essendo il sardo logudorese la mia lingua madre, ero abituato a pensare in sardo e, quindi, costretto a tradurre il pensiero dal sardo e scriverlo in italiano!

La vita di quegli anni mi ha abituato al rispetto delle regole, degli orari, e dei compagni; mi ha inculcato l’importanza dell’organizzazione e della pianificazione nella vita quotidiana.

Dagli insegnamenti, non solo meramente scolastici, ho acquisito e sviluppato un’abitudine alla critica (dal greco ”krinein”, distinguere), che è diventata una compagna inseparabile, anche se talvolta ostica (per gli altri) della mia vita.

Soffermando l’attenzione sull’insegnamento religioso ricevuto in quegli anni, il mio consuntivo mi dice : la semina effettuata i quei cinque anni, per molti degli anni successivi, sembrava caduta o tra i rovi o tra i sassi. Dopo il rientro in paese, la già ricordata attitudine a voler discernere, a pormi dei dubbi, a ricercare i perché, mi ha portato a rimettere  in discussione tutti gli insegnamenti religiosi ricevuti e ho cercato delle risposte convincenti, scegliendo la strada della “ragione”, senza riuscire a trovare quelle giuste. Quaesivi et non inveni! Con il passare degli anni (tanti), quella semina, molto probabilmente grazie ad un’altra “passeggiata in incognito”, ha dato i suoi frutti rigogliosi.

Pensando a quei 5 anni, mi piace citare altre cose, meno importanti ma ugualmente indimenticate.Mi ricordo le immagini televisive sull’assassinio di J.F. Kennedy, sulla morte di Papa Giovanni XXIII e sulla nomina di Papa Paolo VI.  E qualche anno prima, qualche partita dei mondiali di calcio del 1962. Tutto questo, per me era extra, perché al mio paese di televisori ce n’erano, forse, tre, di cui uno a casa della mia maestra, che, ogni tanto, ci faceva vedere Jim della giungla, un film americano, che davano, nel pomeriggio alla “TV dei ragazzi”..

Mi piace ricordare le tante volte che, di domenica pomeriggio, ci portavano a conoscere Cagliari, oppure a visitare delle navi da guerra, presenti al porto e molto suggestive per noi ragazzi.

Mi ricordo, ancora con più piacere, che nella primavera del 1964 fummo accompagnati allo stadio Amsicora, dove il Cagliari per la prima volta conquistò la serie A. Da allora, sono diventato e continuo ad essere, con gioie e pene, tifoso della squadra rossoblù.

Io, ogni tanto, di domenica andavo a casa di quel compaesano che ci aveva aspettato alla stazione di Cagliari, il quale, nel frattempo era diventato mio padrino di cresima, il quale, dopo pranzo, mi portava al cinema Astoria ( in quegli anni davano film per tutti), dove ricordo di aver visto diversi film di Totò.

L’elenco delle cose positive può continuare a lungo ma mi limito a ricordarne alcune che, per uno nato in un paese di campagna (al quale è sempre rimasto molto legato, come al grembo di una madre) hanno avuto un notevole valore. Ho conosciuto alcune tra le più belle spiagge della Sardegna come Chia, (dormivamo a Domus De Maria, dove la mattina venivamo svegliati da meravigliose sinfonie di musica classica e dove nelle prime ore io andavo, con pochi altri, a raccogliere i fichi d’india, ancora umidi di rugiada), Cala Regina e Villasimius, nei cui mari Padre Enrico  mi ha insegnato, volente o nolente, se non proprio a nuotare, almeno a stare bene a galla, senza bere l’acqua salata.

In questo florilegio di bei ricordi ne inserisco uno, tra i pochi spiacevoli, che la mia memoria ha trattenuto. Un giorno, forse al primo o al secondo anno, il rettore Padre Serra mi fece convocare nel suo studio e mi riproverò severamente perché, a suo parere, io ridevo troppo ( magari, forse, mi avrà anche detto che “risus abundat in ore stultorum”. Ho dei buoni motivi per pensare che questo rimbrotto ebbe un impatto molto pesante su di me: i miei amici, quelli veri che mi frequentano da diversi lustri, mi fanno frequentemente presente che io rido molto poco. Devo ammettere che hanno ragione: io di solito sorrido e solo raramente mi lascio andare al ridere.

Mi piace chiudere con un’altra immagine, anch’essa impressa nella mia  memoria (neanche allora, avevo una macchina fotografica!). Ritrae un padre gesuita ed un giovincello di 17 anni, seduti, uno di fronte all’altro, in una saletta, posta a destra entrando nel palazzo dai mattoni rossi in Via Tuveri, seconda traversa, n. 2. Eravamo verso la metà del mese di giugno del 1964. Il gesuita è Padre Giovanni Puggioni, il mio pescatore del 1959,  che tiene le mie mani nel caldo delle sue e, con molta delicatezza e sensibilità, caratteristiche del suo DNA, mi dice che io non sono tra gli “eletti” e che, pertanto, la mia esperienza tra i gesuiti finiva lì.

Presi atto, seppure non contento, abbastanza serenamente di questa comunicazione, sia perché avevo fiducia in Padre Puggioni, per cui ho ritenuto che la sua valutazione fosse giusta e sia perché ero consapevole che quei 5 anni trascorsi a Cagliari avevano fatto crescere le ali a quell’uccellino partito dalla stazione di Giave in quell’umido mattino ottobrino del 1959.

Sono convinto che, grazie a quel “Signore che viaggia in incognito”, mi sono cresciute le ali che mi hanno consentito, e spero continueranno ancora, a farmi volare dove e come, rimanendo a Cheremule in quel 1959, non avrei mai potuto arrivare.

Il rientro a Cheremule non avvenne in treno, ma a bordo di una Fiat 500 familiare, di proprietà del padre di un compagno del collegio.

Cheremule, 30 aprile 2019                                                                                                        

 

 
 
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