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Ammentos 2019

Dopo mezzo secolo     di Ignazio Pinna

 

(Era il 3 giugno del 2012 e molti ex-allievi ci si riuniva a Cuneo)

Erano le 9:45, ma speravo di sbagliarmi. Mi ero appena svegliato ed ero ancora assonnato, speravo proprio di sbagliarmi. L’incontro era stato fissato alle 10:30 presso quello che era stato il nostro collegio negli anni della formazione. Dovevo sbrigarmi.

Non potevo

proprio arrivare in ritardo. Arrivavo dalla Sardegna, sicuramente rappresentavo un fatto nuovo, mi auguravo anche piacevole. Insomma, non potevo certo arrivare in ritardo. E che avrebbero potuto mai pensare i miei compagni di collegio, gli amici che mi erano rimasti impressi nel ricordo collettivo, con pochi sprazzi di ricordi circoscritti ad un fatto, ad un viso, ad una abitudine, ad un rimbrotto! E poi gli amici mi avrebbero potuto richiamare con il temuto Caro figliolo del compianto padre Piloni, nostro padre Rettore.

Dovevo quindi sbrigarmi, non leggere più l’abituale una o due pagine di News Week, né tantomeno consultare il dizionario dello slang americano per qualche termine od espressione che mi sfuggisse. La barba, ovviamente sì, la dovevo fare anche per ridurre la distanza temporale tra allora ed il momento dell’incontro agognato. Via Statuto non è poi tanto lontana dalla Piazza Galimberti vicino alla quale stava il mio hotel.

Quando ci pensavo, mi sorprendevo a chiedermi se mai fosse via Statuto oppure via S.Tomaso. S.Tomaso, i Tomasini era un ricordo vivo e prevalente. Poi, svegliatomi appieno, anche grazie alla tensione procuratami dal temuto ritardo, ricordavo bene. Era il santo cui era stato dedicato il collegio e tutti, in particolare i cittadini di Cuneo, avevano imparato a chiamare i Padri Gesuiti del collegio, i Tomasini. Ed in tale denominazione includevano (così nel tempo si era cristallizzato il ricordo) anche noi allievi, ossia quelli che aspiravamo a diventare Gesuiti.

Alle 10:15 ero già nella hall del Royal Superga. Alla gentile concierge, che mi indicava la saletta per la colazione, rappresentavo il mio pressante impegno. Potevo però bere almeno un caffè: bastavano non certo più di cinque minuti e ne avevo ancora quindici. Me lo prepara in un istante, lo sorbisco con ansimante piacere, ringrazio la sorte che mi regalava gentilezza e simpatia in quella città che aveva rappresentato il mio ingresso nell’età adulta e, spero di non sbagliarmi, nella coscienza del significato della vita, del dovere di viverla appieno con consapevolezza ed osservanza dei principi. E di questi, i Gesuiti, ce ne avevano trasmesso non pochi. Anche di quelli, direi meglio, soprattutto di quelli che spesso oggi vengono presi sottopiede, perché considerati banali se non addirittura manifestazione di poca padronanza di sé stessi. E l’arrivare in ritardo ad un appuntamento era qualcosa di grave, specie se ripetuto, contrariamente all’abitudine oggi prevalente, giacché si ha la presunzione di anteporre altri erroneamente considerati doveri più pregnanti: come farlo di proposito, ossia di farsi attendere, per poter apparire diversi, degni di essere attesi.

Mi ritrovo in piazza Galimberti: è invasa da tanta gente, grandi e piccoli, in tenute sportive le più variopinte e caratteristiche, densa di chioschi e gazebo, di segni vari sul pavimento. Mi ci addentravo tranquillo senza preoccuparmi del traffico della strada di contorno che vi era interdetto e realizzavo che vi si svolgeva una qualche manifestazione importante. Vi erano presenti tutte le fasce della popolazione e, mi rendevo conto dopo, non esclusivamente del nucleo urbano. Vi erano i vigili, i carabinieri, in servizio ed a riposo, e poi una grande sfilata vi arrivava proveniente dal corso Nizza, con tanto di stendardi e tutti rossi con la scritta predominante AVIS. Era chiaro e poi i vigili motociclisti da me sfacciatamente interpellati, mi confermavano che erano i vent’anni della istituzione, in Cuneo, della benemerita associazione.

Il gruppo

alla fine della via Statuto appariva folto. Vi appariva anche qualche signora e stavano di fronte all’ingresso del collegio. Luigi e Stefano, da buoni anfitrioni dell’evento, tenevano caldo l’ambiente, l’uno, ossia il primo citato, con la sua bonomia e la sua immediata predisposizione a volerti amico ed ancor più. Stefano con l’aria assorta di chi continua a definire i dettagli di una azione imminente, ma con l’espressione e la postura di un vero amico. Per chi mi legge, tra coloro che hanno vissuto le mie esperienze in collegio, sa di che parlo. Sa che non di semplice amicizia parlo, ma di fratellanza amica, di condivisione implicita, spontanea, di costante empatia.

Ma io ero nuovo, dopo oltre mezzo secolo, a riunirmi a loro e Luigi e Stefano sospendevano momentaneamente la conversazione in corso, si impossessavano di me ed io ne ero avvinto, mi annunciavano con grande sorpresa dei presenti che, immagino, si sforzavano di inquadrarmi nei loro ricordi.

Ed è, a questo punto, che Parodi mi ricorda che io calzavo il 41 contro il suo 38 e che probabilmente per questo, pensavo io, non ero mai riuscito ad essere accetto nelle partite di calcio, vuoi nel campo, che nel terrazzo. Non accetto, né dai compagni di squadra né dagli avversari. Ovviamente il mio piede grande contribuiva a rendere ancor più molesta la mia goffaggine in quel gioco.

Tiro fuori le foto di quegli anni e le porgo ai presenti che se le guardano con bramosa attenzione, poi vi ci si riconoscono, vi riconoscono degli amici presenti e di altri assenti, di qualcuno che nel frattempo ci aveva lasciato. L’emozione va montando: è come se ci preparassimo ad ascoltare la messa con la dovuta commozione, quella di rivivere assieme l’esperienza quotidiana dei mattini del collegio, con i piccoli nella fila di destra ed i grandi, quelli che, avendo superato le medie, frequentavamo il ginnasio, in quella di sinistra.

Si affaccia Padre Manino, io non lo ricordavo, né potevo, stante il fatto che negli ultimi tre degli anni cinquanta lui era già passato al liceo a Torino e si avviava a diventare sacerdote. È ora in collegio, tra i meno anziani, il coordinatore degli eventi e delle cerimonie religiose.

Occorre che tre di noi provvedano alle letture ed alle invocazioni durante le messa e che due signore facciano la questua. “Usate i cestini, dice Padre Manino, è bene che si veda l’offerta perché questa risulti copiosa”. I terremotati della Romagna ne avevano bisogno!

La messa

vedeva schierati sei sacerdoti gesuiti, celebrante Padre Piero Granzino, ora al Collegio Sociale di Torino, e concelebranti i Padri Michele Turco, Salvatore Zanda, Mauro Pasquale, nostri ex compagni, oltre ai Padri Paolo Gamba e Maurizio Bozzo Costa, con Padre Manino, coordinatore della funzione, quasi un regista. A me viene assegnata la seconda lettura e le invocazioni ed è qui che mi commuovo, al pronunciare il nome di Padre Ghi, tra i cari scomparsi che si ricordano, e che Luigi e Stefano mi avevano riportato su un foglietto. Ricordavamo solo i Padri Ghi, Arione e Boschi e gli amici Renzo Cavadore, Edmondo Maccioni e Medardo Trucco. Nella tensione di trovare l’ appunto tra i tanti foglietti ammucchiati nelle tasche della giacca, non avevo avuto la prontezza di ricordare anche i padri Piloni, Serra e Flecchia e Schefter e né padre Puggioni che mi aveva preparato assieme agli altri sardi a Sennariolo, non lontano da Cuglieri dove i Padri erano titolari della facoltà di teologia. Il sermone ci trova tutti attenti, le parole sono rinfrancanti, evocatrici di splendidi ricordi di un periodo felice e fruttuoso.

E poi, al saluto di pace, ci ritroviamo a scambiare strette calorose di mano, mentre i padri si baciano da fratelli e la chiesa sembra un focolare di commozione. E poi la comunione che ci vede andare ai piedi della balaustra da dove i Padri amministrano il sacramento.

Le foto di gruppo le affido ad una signora non solo desiderosa di essere utile, ma che tale è stata. Io predisponevo solo la macchina ed a lei dovevo affidare l’inquadratura e lo scatto. La prudenza mi faceva richiederle di scattarne più di una così che, al rivederle al computer, ne ho potuto contare non poche di ben riuscite, taluna anche senza di me quando mi spostavo per andare a vedere man mano i risultati, tal’altra con me che rientravo nel gruppo. Ma, ad onor del vero, la maggior parte risultarono poco luminose ma accettabili grazie all’espressione degli amici ritratti, tutti ex-allievi, pochi i gesuiti, ma tutti ex-apostolici. Anche Mario Cotella, più pratico di me nella fotografia, scattava qualche gruppo così da poter avere una foto di qualità migliore per il giornalino.

Poco prima, alla fine della funzione mi veniva permesso di accedere al presbiterio da dove ritraevo l’auditorio in composta attenzione, l’aria compunta in sintonia con la solennità dell’evento e la compostezza ieratica dei celebranti ora allineati con le spalle all’abside quasi a ricevere il nostro ringraziamento.

Luigi

mi aveva comunicato che sarei stato nella sua auto per andare al ristorante, assieme alla moglie Silvana. Stefano avrebbe provveduto a portare, oltre alla moglie Marina, Padre Manino e Padre Bozzo Costa. L’abitudine del nord d’Italia è di consumare i pasti ben prima degli orari del sud. Arrivavamo, i primi, al Papaveri e Papere, prima delle 13:00, sostavamo quindi nel giardino anteriore in attesa dell’arrivo degli ultimi, che in verità sopraggiungevano dopo pochi minuti. Non sono molti i chilometri dal S.Tomaso al ristorante, in località Murazzo di Fossano: solo 15-20 minuti.

Le mie foto continuavano a scorrere tra le mani degli astanti che la messa comune aveva reso ancora più commossi e desiderosi di riconoscersi amici. Luigi non mancava di notare anche il mio muovere il collo a mò di tic. Pensavo che fosse la conseguenza dell’artrosi cervicale. Ma non potevo soffrirne anche all’età di soli 15 anni: doveva essere, pensavo, proprio un tic e la cosa non mi dispiaceva. All’artrosi la sola volontà poteva fare poco, al tic forse molto. E, poi, non era entusiasmante che mi si ricordasse anche il tic?

Intanto Stefano sfogliava dei fogli di appunti, controllava le presenze e prendeva gli ultimi accordi col giovane ristoratore. Mi veniva presentato e sapevo che aveva una casa a Muravera, che amava la Sardegna e me lo confidava con trasporto tale da convincermi che non fosse una affermazione da oste.

Si beveva l’aperitivo accompagnandolo con degli ottimi stuzzichini che oltre a stimolare ancor più l’appetito minavano la capacità finale dei nostri stomaci.

Poi gli antipasti,

capeggiati da un ottimo carpaccio di pesce spada, impreziositi dall’ottima carne cruda, autentica piacevole novità per me, e poi proseguivano con Insalatina di pollo, sedano e rucola ed allora realizzavo quanto capace e parco è il popolo contadino che sapeva nobilitare anche ciò che oggi viene svilito. Forse, anche, perché il pollo oggi non è più, quasi sempre, quello ruspante ed il petto ne rivela tutte le conseguenze.

Veniva servito poi uno sformato di zucchine del tutto nuovo ed intrigante per me. Il menù parlava di sformato di zucchine con crema alla raschera. Ma lo leggevo solo al rientro in Sardegna due giorni dopo. E solo allora, cercando nella rete, scoprivo che il Raschera DOP è un formaggio semigrasso, crudo, pressato, a pasta compatta di colore bianco avorio che vanta il marchio di origine controllata. Mi era risultato intrigante per i sentori inusitati che, scoprivo, in quello di alpeggio sono quelli caratteristici di malga e di erbe alpine.

E già che ci sono ed i ricordi sono pressanti, continuo con la descrizione del menù.

Crespelle

ripiene con ricotta e spinaci e tagliolini al ragù rappresentavano i primi piatti. La capacità residua iniziava a diventare esigua per cui mi limitavo nelle porzioni. Le due giovani splendide ragazze che servivano ci riproponevano le portata con invitante sollecitudine. Cedevo sulle crespelle.

Lo stracotto di vitello arrivava dopo che tutti avevamo ultimato i primi piatti. Ed ecco che appare Piergiorgio Tibaldi, con signora. Non era potuto proprio venire prima, era riuscito a liberarsi solo allora. Veniva da Macellai, borgo di Pocapaglia, non proprio da lontano, ma proprio non era potuto venire prima e per farsi perdonare ci portava due bottiglie di ottimo vino. Era una di Barbaresco e l’altra di Barolo. Sono dello stesso vitigno Nebbiolo da cui tutti e due traggono vita, definita dal suolo, dall’esposizione e dalla maturazione ed invecchiamento. Non lo sapevo proprio. Ma la signora Tibaldi me lo spiegava con evidente e vissuta cognizione di causa. E, poi, mi sembrava che loro ne fossero produttori.

Gli chiedevo chiarimento sui nomi intriganti di Macellai e Pocapaglia: ma, è semplice, Macellai per essere luogo di macello e Pocapaglia per essere su una rocca arida che appunto non dava paglia in quantità.

Intanto Luigi mi spiegava che Piergiorgio era stato nostro assistente, che era arrivato quasi ai voti ma non aveva proseguito. Io faticavo a ricordarlo, ma le foto lo ritraevano solo più giovane. Le fattezze erano incredibilmente le stesse, così come la corporatura asciutta, lo sguardo attento, sempre volto al sorriso. I compagni di mezzo secolo addietro mi riportavano altri ricordi ed io cominciavo a realizzare qualche ricordo specifico. Era una emozione continua.

Intanto passavano lo stracotto di vitello ma io non me ne accorgevo. Ero troppo assorto a cogliere ogni minimo dettaglio dei ricordi propostimi. Mi ritrovavo quindi un pezzo di carne che gli amici vicini avevano provveduto a farmi servire durante la mi assenza mentale. Ma ero pure non poco sazio e l’abitudine collegiale a non lasciare niente di non mangiato nel piatto mi obbligava ad assaggiarlo prima e, constatato che era squisito, ad ultimarlo senza eccessivo sforzo. E poi il Barolo e il Barbaresco di Tibaldi andavano accompagnati a dovere.

 

I formaggi

che ci venivano quindi serviti ne annoveravano uno a me non noto, il Castelmagno, nome derivato, mi si spiegava, dal paese d’origine. E poi seguiva il dettaglio sulle sue origine lontane, qualità, e curiosità. In effetti, mi si dice, ha origini antichissime, già che le prime notizie di un formaggio con questo nome, utilizzato come forma di pagamento delle gabelle dagli abitanti della zona, risalgono alla fine del tredicesimo secolo e, probabilmente, la sua produzione iniziò però ben prima, forse intorno all’anno mille. E, poi, mi si spiega, il vero Castelmagno viene prodotto a partire da latte intero vaccino, con solo eventuali aggiunte di piccole percentuali di latte ovino e caprino, e comunque da bestiame di razza piemontese alimentato a foraggio fresco o fieno proveniente da prati misti o pascoli. Anzi da bestiame del cuneese. Era oltremodo buono e poi il Barolo e il Barbaresco di Tibaldi calzavano a pennello.

Il dolce, pure, me lo ritrovavo nel piatto. I miei vicini di tavolo provvedevano in mie vece a farmi servire. Fortunatamente non facevano eccedere nelle porzioni, consci della mia dichiarata sazietà ed educati al rigore del contenuto ultimato del piatto. Ma era tutto buono e mi sovveniva in soccorso una storiella di uno zio lontano, accanito buongustaio e tenace forchetta. Era quella del vescovo che dal sagrato gremito all’inverosimile si dirigeva verso l’ingresso e, cosa quasi inverosimile, gli si apriva un varco più che decoroso tra tanta umanità intenta ed assorta. Il vescovo rappresentava, a detta del simpatico antenato di mia moglie, il maialetto, i fedeli il tanto cibo ed il sagrato lo stomaco affaticato ed ingombro. Così raccontata mi appariva offensiva della dignità del prelato e della chiesa, ma a ripensarci mi risulta solo simpatica. Il bello ed il buono devono comunque avere il cammino spianato.

Pur dopo questo simpatico racconto, Luigi non si convince a mangiare il formaggio. Non ci sono riusciti nemmeno i Gesuiti a farmelo mangiare, mi commenta convinto. E non aveva mangiato nemmeno lo sformato di zucchine che conteneva formaggio.

Io, invece ingurgito anche la porzione intera della meringa, della mousse al cocco e dello strudel di mele e fichi. E, a quel punto, arrivava un agognato caffè e, subito appresso, mirto o limoncello. Preferivo il mirto e lo pubblicizzavo tra i commensali. Ai tempi del collegio, ricordavo a supporto, non si vedeva nemmeno il vino e ci mancherebbe!), ma io con i pochi rimasti in collegio all’epoca della asiatica, potevo usufruire anche in collegio di un bicchiere semipieno di vino. Sembra che facesse parte della terapia. Si sorride a tale mio ricordo, ma solo Padre Zanda, il Salvatore dei giorni del ginnasio, l’unico sardo presente, oltre a me, che non era stato inviato a casa in occasione dell’epidemia, lo può confermare e la sua parola mette un punto fermo.

 

Rientriamo,

gli ultimi, quasi alle 4 del pomeriggio e Luigi e Silvana mi riportano in hotel. Ne avevo bisogno! I saluti, le promesse di successivo incontro, di costante corrispondenza, gli abbracci, i ricordi ricordati nuovamente, mi avevano felicemente fiaccato. Quasi come era avvenuto il giorno prima. Il tutto era iniziato al mio arrivo nell’ aeroporto di Levaldigi, in tempo per il pranzo. Luigi e Stefano erano venuti a prendermi. Luigi mi aveva riconosciuto al mio scendere la scaletta e lo comunicava a Stefano: Ignazio è quello con la giacca gialla … guarda … è proprio lui.

All’uscita dall’aeroporto, era Luigi, infatti, che senza tentennamento alcuno mi salutava: ciao Ignazio, ben arrivato. Ha una memoria prodigiosa e mi ricordava bene e finivo quindi per visualizzarlo anch’io nei miei ricordi, anche se non con la stessa lucidità. Erano stati due anni quelli convissuti, quarta e quinta ginnasio, avendo io frequentato le medie in Sardegna. Stefano, più piccolo di noi, frequentava le medie al tempo del nostro ginnasio. Era uno dei piccoli. Non potevo ricordarlo ma l’amicizia si instaurò subito: avevamo una fetta della nostra vita in comune, in via Statuto.

Erano quasi le tredici e conveniva andare a pranzo. Il ristorante era lo stesso del giorno dopo, Stefano aveva già prenotato ed io non pensavo minimamente di schermirmi. Poi la mensa è un buon incontro e tale fu. I ricordi di Luigi mi andavano stupefacendo sempre più. Ora mi ricordava del mio tenere le braccia dietro la schiena, del mio parlare esuberante, del mio battere il piede destro o sinistro, quasi a battere il tempo del mio cianciare. Stefano non poteva aiutarlo ma assentiva a conferma della fervida memoria di Luigi.

La cena, presso amici, della sera prima in Sardegna, mi aveva portato a letto alquanto tardi e la mattina mi alzavo all’ora presta abituale, ragion per cui cominciavo a sentire il bisogno di un po’ di riposo. Ma era irrinunciabile potermi crogiolare nei ricordi così vivi di un amico di oltre mezzo secolo e di un altro, non meno caro, scoperto da poco. Insomma, non badavo, contrariamente al mio solito, alle portate ma quasi stimolavo Luigi, accennavo a mozziconi di ricordi e lui ne traeva una storia intera. Gli parlavo dello slittino e lui mi specificava che andavamo sulle sponde del Gesso. Era presso il Santuario degli Angeli. È lì, poi continuava, dove si andava a giocare ai numeri. Avevamo una fascia con tre numeri in fronte ed eravamo divisi in due squadre. Dovevamo, una volta nascostici, individuare quanti più avversari possibile con la semplice proclamazione dei loro numeri frontali. Sembra che fosse quanto mai divertente. Lo ricordavo vagamente. Ancor meno ricordavo le passeggiate di qualche chilometro dal Santuario degli Angeli a quello di Mellana, che si scorge in mezzo al fogliame di alberi maestosi dal sagrato del Santuario.

Era più vivo il ricordo dello slittino, delle rane che io, pur sardo nemico di esse per non conoscerle, mangiavo per la prima volta. Ricordavo poi il Padre Scheffter, delle traduzioni in francese del cinghialetto (le petit sanglionet) di Grazia Deledda, dei pomeriggi nella sua stanza a stampare le foto da me scattate ai miei alunni di catechismo.

E, vagamente, mi sembra di ricordare che prediligessi fotografare le ragazzine, non troppo discoste dalla mia età, senza peraltro associarci alcunché di morboso. Ma i Padri, ed in questo, forse, Padre Scheffter aveva avuto la sua parte, l’avevano presumibilmente avvertito, così che nel tempo me ne ero convinto per individuarvi la causa del mio allontanamento dalla quinta ginnasio, quando sfioravo la media del nove. Saresti un buon gesuita ma non saresti un buon prete, mi sembrava di ricordare come dettomi da padre Piloni, alla presenza di Padre Ghi, in occasione appunto dell’interruzione della mia iniziata carriera apostolica. E forse l’aveva fatta precedere dal suo abituale esordire con figliolo caro, che annunciava qualcosa di grave.

Borgo S. Giuseppe.

In verità non ricordavo il nome del borgo, mi sembrava S.Dalmazzo ma risultava troppo lontano per raggiungerlo in bicicletta, pur se dotata di motorino. E Luigi mi suggeriva che non erano poche le parrocchie dove insegnavamo, tutte quelle alla periferia di Cuneo. Forse Borgo Gesso, mi suggeriva. È dove lui abita e dove, il giorno dopo, invitatovi a cena, scoprivo dal cartello all’ingresso che si chiamava formalmente S.Giuseppe ed allora mi riappariva vivido il ricordo.

Il lunedì, il giorno dopo dell’incontro ufficiale, ero invitato a cena da Luigi a casa sua e, con l’occasione, visitavo meglio la chiesa dei miei primi insegnamenti. Una pia donna, poco più grande di me, mi chiariva che la chiesa era stata ampliata non poco, che l’altare era stato spostato da un estremo all’altro a motivo appunto dell’ampliamento. Mi era difficile ricostruire il ricordo. La piccola costruzione dell’oratorio, rimasta immutata, mi appariva invece presente anche se in modo ridotto ed un po’ confuso. Era lì che proiettavo le diapositive ai giovani miei allievi. Luigi ne era certo ed io non avevo motivo di non credergli.

E poi la cena, preceduta dalle foto a Molly, il gattone di casa, dall’età ragguardevole di 20 anni! Mi sembrarono troppi stante l’aspetto sano e vigoroso dell’animale o forse questa era la ragione di tanta vita.

L’appuntamento era per dopo la cena, in un bar di via Nizza, per incontrarci con Stefano e Marina per il saluto. Erano solo le 21:30 e trovammo un solo bar aperto sotto il portico di destra della via Nizza per chi viene da Piazza Galimberti. E coronavo con una grappa di barolo barricata: fantastica! Ci voleva proprio per chiudere in bellezza i piatti del giorno, quelli giapponesi.

E poi a letto: ero proprio spossato.

Ero così da due giorni,

da quando ero arrivato. Arrivo, riconoscimento immediato da parte di Luigi, abbraccio con gli amici, uno ritrovato e Stefano nuovo di zecca. Ci eravamo sentiti solo al telefono, la prima volta, a seguito dell’indicazione da parte di Padre Ghi, successivamente per gli accordi sull’incontro della prima domenica di giugno, quello di cui sto parlando. Poi il pranzo, nemmeno affrettato, poi l’arrivo in albergo e subito dopo, accompagnato da Luigi e Silvana, si va al collegio. Passiamo dalla chiesa, incontriamo Fratel Carlo Giraudo che ci annuncia a Padre Salvatore Zanda. Poi arriva Padre Manino e nel frattempo arrivano anche Stefano e Marina.

Rivedo i banchi, io assieme ai compagni del ginnasio stavo nella colonna di sinistra, a destra i più piccoli. E, poi, mi sembra di ricordare anche la fila. Stavo quasi sicuramente nella terza fila.

Poi iniziavano i ricordi. Salvatore mi dice che io ero bravo in matematica e che il Padre Farotti, docente appunto di matematica, sembra avesse stima di me sino al punto da farmi risultare quasi un intermediario tra lui ed i compagni sardi che, a suo dire, non erano stati preparati a dovere. E Salvatore, ad ogni buon conto, mi faceva presente che la sua stima per me era dovuta principalmente al fatto di provenire da scuola diversa da quella, evidentemente da lui non molto apprezzata, dei mie compagni.

Salvatore aveva fatto le scuole medie a Bonorva, sempre presso i Gesuiti, poi il ginnasio a Cuneo, il liceo a Torino e su di seguito sino alla teologia a Cuglieri, poi in missione ed ora si trovava a vivere un anno sabatico. Che vuol dire un anno sabatico per un gesuita?, gli chiedo, non poco intrigato. È un anno di riflessione, di approfondimento nei temi di fondo dell’essere umano, la spiritualità in particolare. Lo trascorre a Roma, presso la residenza del Gesù, dove già risiede da qualche giorno e da dove era venuto molto entusiasta a Cuneo per l’incontro del 2012.

Padre Taliano

invece non così aveva fatto. Era comunque in Italia già da qualche giorno, proveniente dal Madagascar dove è missionario da lunga data, in compagnia di Padre Cento che annovera ben 87 anni. Aveva pur promesso di essere presente all’incontro ma, poi, aveva prevalso l’amore per la sua vecchia parrocchia di Latina. E con i parrocchiani era partito per Medjugorie.

Terminavamo la serata a mangiar la pizza in un simpatico locale gestito dalla famiglia Amatruda, una delle tante che da Tramonti, il paese dei pizzaioli, erano sciamate in tutto il mondo per far conoscere la pizza. Ed io, ovviamente, opto per la napoletana, presumo la classica.

Anche Luciano Magnone non partecipava. Lo aveva comunicato molto dispiaciuto a Stefano che commenta un po’ rattristato: era venuto due anni fa, speriamo ci sia il prossimo anno. Mancano poi Celestino Cadorin, Luigi Chiamba, Padre Giampiero Cherchi, Giuliano Mariani.

Rientriamo, chi in auto, ossia Luigi, Stefano e signore, chi, io e Salvatore, sotto i portici sino a casa. È tale la foga dei racconti tra me e Salvatore che andiamo oltre la via Statuto, torniamo indietro con nostra contentezza per poter continuare ad evocare ricordi, compartire punti di vista ed emozioni. Poi io proseguo per l’hotel, pochi minuti, sono appena le dieci e sarò a letto mezz’ora dopo.

Ricordo altro,

anche se un po’ frammentario, non inquadrato nel tempo dei tre giorni a Cuneo. Ricordo la Bisalta, il monte che si apprezza dal terrazzo del collegio, il Monviso che Luigi apprezza ora da casa sua e che, io incluso, ne godevamo la vista dall’altro lato del terrazzo del collegio. Poi lo stupendo ponte a doppio impalcato, carreggiata automobilistica il superiore e doppia linea ferroviaria in quello inferiore. Mi sovvengono le passeggiate a tre a tre sotto i portici di via Nizza, le passeggiate peripatetiche ed io, ricordava sempre Luigi, di tanto in tanto, venivo preso dalla foga della ciancia (così la dico io, per gli amici sembra fosse enfasi oratoria) e, quasi a dargli maggior impatto, battevo alternativamente la punta dei piedi.

E, poi, il tunnel E-W che sottopassa il centro di Cuneo che, conseguentemente, risulta quanto mai scorrevole in auto e piacevole da percorrere a piedi. E lo percorriamo e non ricordo se andando a Borgo S.Giuseppe o provenendone, insomma rischio di fare una melassa dei ricordi. E ciò avviene quando sono tanti ed intensi.

E, poi, mi si ricorda un Padre faccia da tigre, Padre Bertora. Chissà poi perché questo appellativo. E, poi, anche l’ospedale S.Croce, l’unico esistente ai tempi del collegio, dove mi avevano tolto le adenoidi. Ed, ancora, la chiesa di S.Francesco, Gabriele Somà, con signora e due figli al tavolo

Mi sovviene anche il nome di Padre Daniele Fontana che si appresta a scrivere la biografia di Padre Ghi. E - perché no?- ricordo Padre Ghi quando lo incontrai a luglio dello scorso anno in collegio, poco tempo, quindi, prima che ci lasciasse. Ero con Rita, mio moglie, e lui, guardandomi subito dopo l’abbraccio istintivo che lo aveva stretto a me, con volto ispirato, mi diceva di aver di fronte a sé il filmino di me con mia madre, oltre mezzo secolo prima, in collegio. E ricordava pure la religiosità della mia genitrice, la sua contentezza ed appagamento spirituale. Stavo vivendo un sogno, una favola, così come la vivo ora. E spero che anche per chi mi legge avvenga analogo piacere.

 

 
 
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